Bob Seger è uno di quegli autori giganteschi, che ha grande amore per la musica, specialmente per i singoli della Motown. Andiamo perciò a farci un giro in stile “Fragile”, cercando curiosità e aneddoti sulla storia di questo immenso musicista.
BOB SEGER, FROM MICHIGAN
Bob Seger nasce ad Ann Arbor (Michigan), patria dei tante band rumorose come MC5, Stooges e Amboy Dukas. Cresciuto in una zona urbana ma fortemente industrializzata, già questo sarebbe sufficiente a fare di lui un predestinato. Nei primi 60 forma diverse band (Decibels, Town Criers), ma la prima formazione stabile è quella degli Omens. Forma un’altra band, i Beach Boums e pubblica un altro singolo per la Hideout “Ballad of green berets”, una ballata militarista. Pubblica “East side story” con i Last Heard, brano già pubblicato dagli Underdogs (Michael e Suzi Quatro, e il futuro Eagle Glenn Frey).
Strappa in seguito un contratto per la Cameo, che pubblica altri singoli fra cui “Heavy Music” che ha un discreto successo. Seger lo riprenderà per inserirlo in uno dei suoi primi album “Smokin O.P.S.”. La band assumerà il nome di Bob Seger System e vede fra i vari musicisti coinvolti nel primo album Glenn Frey. Successivamente inciderà con questo nome altri due album: “Noah” e “Mongrel”.
BOB SEGER AND THE CAPITOL YEARS
Passa alla Capitol dove uno dei suoi primi successi è “Ramblin Gamblin man”, che diventerà uno sei suoi classici, e sopratutto il titolo del suo primo album del 1968. E’un album dal suono sporco e tendente all’Hard, visto che parliamo di una band di Detroit: in quei giorni la città bruciava in tutti i sensi. Non mancano punte di psichedelia, e in alcuni pezzi l’organo la fa da padrone, senza contare la sua voce decisamente roca, una versione Midwest degli Animals di Eric Burdon.
Molto bella e intensa la ballata “Gone”, notevole il garage sound di “Down Home”, mentre “2+2=?” sembra presa da un album degli Steppenwolf. Divertente lo strumentale “Doctor fine”. Buon finale con la corale “The Last Song”. E’ una band acerba, che non ha ancora una direzione precisa da prendere: troppe le influenze visto il periodo, ma qualcosa già si intravede.
Dopo qualche mese è già pronto il secondo album “Noah”, un disco che rimane fedele al suono urbano fatto di Rhythm and Blues e soul psichedelico. “Noah” apre il disco in maniera vigorosa e leggermente soulful, mentre già la seconda ci porta nella Detroit black e pare uscita da un album di Ike e Tina Turner. “Lonely man” è un discreto soul psichedelico che pare seguire gli insegnamenti di Sly e Family Stone, poi il disco si mantiene su di una discreta sufficienza mantenendo ancora un approccio acerbo. Finale discreto con “Death row”, non un disco essenziale, troppo indeciso sulla strada da prendere ma il nostro inizia ad affinare le armi.
INIZIANO GLI ANNI 70
Un anno dopo esce “Mongrel”, con la band leggermente rimaneggiata: qualcosa inizia a cambiare leggermente. Infatti “Highway Child” sarebbe già pronta per uno dei dischi successivi, quelli che hanno venduto tantissimo. Un bel coro femminile, una chitarra bluesy e un bel piano in sottofondo, qualcosa di personale inizia a vedersi ma non è abbastanza. Il suono rimane sempre ancorato a un soul dalla voce roca ma non completamente coinvolgente come dovrebbe essere. Divertente ma nulla più la cover di “River deep mountain high” di Ike e Tina Turner.
Sempre a distanza di dodici mesi, esce “Brand New Morning”, ed è praticamente un album rigorosamente acustico, con giusto un accompagnamento di pianoforte. In “Railroad Days” c’è un accompagnamento alle percussioni, ma non c’è un brano che spicca, sono ballate acerbe buttate un pò di getto. C’è bisogno di una svolta, e la svolta in parte arriva nel 1972.
“Smokin O.p.s” infatti è un album carico di Rock ‘n’ Roll, magari da sgrezzare, ma comunque decisamente energico. Oltre a ciò c’è la solita dose di soul “Hummingbird”, ma sono molte le cover che vanno da Bo Diddley a Chuck Berry, passando per Stephen Stills e Leon Russell, a dimostrazione che il nostro è ancora alla ricerca di una strada veramente personale. Il gruppo che lo accompagna è molto compatto e anche il cantato ha raggiunto una sua maturità: Bob Seger è sempre più calato nel ruolo di cantante Blue Eyed Soul. Due sono le canzoni firmate Bob Seger: la ballata “Someday” e “Heavy Music”, che sarà un vero inno ai suoi concerti.
BOB SEGER, UN CRESCITA COSTANTE
A inizo 1973 esce “Back in 1972”, e anche in questo album non mancano le cover: “Midnight Rider” di Duane Allman, “I’ve Been Working” di Van Morrison e “Stealer” dei Free. La band che lo accompagna è davvero poderosa: Basrry Beckett alle tastiere, David Hood al basso e Roger Hawkins ai tamburi, con Pete Carr e Jimmy Johnson alle chitarre. Notevole la voce di Marci Levy al coro femminile. Una parte dell’album è stato registrato a Muscle Shoals in Alabama: l’aria del sud si sente eccome, sopratutto in “Back in 72” e nella canzone di Duane Allman. C’è molto sudore un questo disco, molta energia e tanto funky, Gran finale con la splendida ballata “I’ve Got Time”, un organo chiesastico e la voce del nostro declamante.
Il responso del pubblico non è esaltante e lo stesso vale per il successivo “Seven”, sebbene contienga un suo classico come “Get Out of Denver”, una vera bomba Rock ‘n’ Roll che sarà uno dei suoi cavalli di battaglia dei concerti . Tutto l’album è decisamente elettrico, ruvido come la sua voce. La band spinge parecchio: qui si sono messe le basi per la Silver Bullett Band.
THE SILVER BULLET BAND
“Beautiful Loser” esce nell’aprile del 1975 ed è nuovamente inciso agli studi di Muscle Shoals con l’uso dei musicisti locali: la Silver Bullett Band al completo figura in una composizione. E’ un album con delle ballate notevoli come “Beautiful Loser” e “Jody Girl”, che saranno una delle sue caratteristiche compositive. Tra le cover segnaliamo una bella “Travellin Man”, manifesto dello spirito americano. Molto piacevole il funky soul di “Black Night”, a dimostrazione del continuo cambio di stile e della duttilità della sua voce.
Se nell’album la Silver Bullett Band lascia molto spazio ai musicisti dello studio, è dal vivo che si riprende il suo spazio. “Live bullett”, un doppio registrato al Cobo Hall di Detroit il 4 e 5 settembre 1975, è un vero portento di energia e musica da alto voltaggio. Drew Abbott alla chitarra, Alto Reed al sax, Robyn Robbins all’organo, Chris Campbell al basso e Charlie Allen Martin alla batteria fanno insieme al leader una vera macchina da guerra decisamente trascinante.
BOB SEGER E L’AVVENTO DEL PUNK
In quel periodo sta bussando il Punk, e le cose stanno cambiando radicalmente. Arriva “Night Moves”, il disco della maturità, che inizia rombando con “Rock and Roll will Never Forget”, e passa alla canzone che dà il titolo all’album. Un classico assoluto delle ballate americane, con un bel piano e un coro femminile di sottofondo. Molto bella la ballata “Sunburst”, elettrica ed intensa, come intensa è anche “Main street”.
Anche in “Strangers in Town” del 1978, Bob Seger usa anche i musicisti di Muscle Shoals e svariati ospiti come due quinti degli Eagles e Bill Payne dei Little Feat. L’album è inciso ai Criteria Studios di Miami e raggiunge delle ottime vendite. Inizia con una tipica ballata come “Hollywood nights” con coro femminile e voce trascinante.
ARRIVANO GLI ANNI 80
Nel 1980 esce “Against the Wind”, inciso negli studi di Muscle Shoals e ai Criteria studios di Miami Florida. C’è l’aiuto dei musicisti degli studio come David Hood al basso e Roger Hawkins, più una parata di ospiti: Glenn Frey, Don Henley e Timothy Schmit ai cori di “Fire Lake” a chiusura dell’album. Un platter di buon rock americano, con ballate alternate qualche pezzo più tosto. Gli arrangiamenti però
rischiano di appesantire il tutto, complice un Bob Seger che cade in una comfort zone senza più picchi.
Nel 1981 esce “Nine Tonight” secondo live album che mantiene alta la qualità degli show on stage. Ottimo live album con qualche inedito, la canzone che dà il titolo al lavoro era stata composta per la colonna sonora di “Urban cowboy”.
Se l’album del 1980 era decisamente arrangiato, “The Distance” del 1982, prodotto da Jimmy Iovine, è ancora più levigato. Il pezzo più famoso è “Shame on the Moon” composto da Rodney Crowell, classica ballata da grandi spazi americani che come singolo raggiungerà il secondo post nell chart americane.
BOB SEGER, IL TRAMONTO
Bob Seger ormai è abbastanza pago della sua condizione: da questo momento non raggiungerà più livelli eccelsi eccetto in qualche occasione. Bisogna attendere quattro anni per il nuovo platter: nella primavera del 1986 si presenta con “Like a Rock”, un album decisamente controverso. Inizia decisamente sparato con “American Storm”, giusto per sfruttare l’effetto “Born in the Usa” e l’orgoglio americano lanciato da Bruce Springsteen. Da qui si passa ad una splendida ballata che da il titolo al disco. Ma le note piacevoli finiscono qui: il resto è il peggio del rock degli anni 80, con suoni pompati, da stazioni radio neanche delle migliori. Album da evitare.
“Fire Inside” del 1991 è album discreto, una vampata di orgoglio per un vecchio leone del Michigan, con buone ballate e una discreta cover di “Blind love” di Tom Waits. Lo stesso si potrebbe dire di “It’s a Mistery” caratterizzato da una copertina orrenda e da un’altra cover di Tom Waits “16 Shell from thirty-ought six”, ma il livello delle canzoni è inferiore al precedente. “Face the Promise” del 2006 è leggermente meglio, mentre “Ride Out” del 2014 ha una buona cover di Steve Earle “Devils’right hand” e delle buone ballate. Notevole una grande “Detroit made”, canzone rombante, una fierezza cittadina da urlare a tutta America.
Da notare la bella “Hey Gipsy” omaggio a Stevie Ray Vaughan aderente anche nello stile del chitarrista texano. L’ultimo disco accettabile di Bob Seger. Di “I Knew you When” del 2017, ultimo album del nostro Bob, non c’è niente da sottolineare: qualche brano piacevole alternato ad alcune canzoni davvero buttate alla meglio giusto per riempitivo.
MUSICA VISSUTA DA JUSTY
Non è giusto finire la carriera discografica così per Bob Seger, un rocker onesto, trascinante, autentico leone da palcoscenico e gran lavoratore dello spettacolo ma sopratutto grande cantore di storie del Midwest. Recuperiamo insieme il meglio della sua produzione, non ve ne pentirete.
Dj Justy vi saluta e vi da appuntamento al prossimo articolo di musica vissuta.
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