I Blue Oyster Cult non sono semplicemente una Band, sono un qualcosa che va oltre, tanto da appassionare tre generazioni di ascoltatori. Comincerò con questo primo articolo, al quale ne seguiranno altri, a parlare della storia di questo gruppo che meriterebbe però maggior giustizia. Iniziamo perciò questo lungo viaggio insieme, partendo dagli esordi.
Blue Oyster Cult e gli esordi
Alla fine degli anni sessanta il sogno di una Summer of love era finito e i nostri ce lo ricorderanno qualche tempo più tardi con “This ain’t the summer of love”: era l’anno 1976. Il concerto dei Rolling Stones all’autodromo di Altamont fu la pietra tombale sull’utopia di Woodstock.
Detroit, Newark, il sobborgo di Watts a Los Angeles, l’assassinio di Martin Luther King e poi, ancora, la convention dei democratci a Chicago. Tutte cose che mostravano un paese dilaniato dalle marce per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam. L’America bruciava e nessuno era più al sicuro.
Nel frattempo, dalla vecchia Inghilterra arrivano i nuovi suoni Hard dei Led Zeppelin e Black Sabbath, mentre da Detroit arrivano gli Stooges di Iggy Pop, la follia di Alice Cooper e gli Amboy Dukas di Ted Nugent. Era tutta gente rumorosa e rabbiosa, lo scenario ideale per i nostri ragazzi. E i nostri ragazzi sono Eric Bloom e Donald “Buck Dharma” Roeser alle chitarre, Allen Lanier alle tastiere e dai fratelli Bouchard alla base ritmica, Joe al basso e Albert alla batteria.
Blue Oyster Cult, estate 1967
Ma partiamo dall’inizio: estate 1967, Università di New York @ Stony Brook, Long Island. Usando svariati nomi come Cows, Oaxaca (un singolo inciso nel 1969) e con l’uscita del primo cantante Les Braunstein arriva in formazione Eric Bloom. Assumono il nome Soft white underbelly, che verrà usato anche successivamente, negli anni della popolarità, quando gireranno i piccoli club negli Stati Uniti.
Poi su indicazione di Sandy Pearlman, che non era solo produttore, ma anche giornalista, poeta e scrittore, assumono il nome di Blue Osyster Cult. L’idea arriva da una composizione di Pearlman che narra di alieni pronti a invadere il nostro pianeta.
Il suono che generano è frutto di visioni malate, di esoterismo e misticismo, bande di motociclisti, disastro urbano e rumori distorti. Musica per mutanti. Le chitarre hanno il suono dei Cream, dei Led Zeppelin e del blues più distorto. Il tappeto di tastiere è fortemente “doorsiano”, ma sopratutto il simbolo utilizzato, una croce con un gancio, rimanda a simbologie naziste o perlomeno malate che creeranno parecchia confusione.
In realtà il simbolo dovrebbe riferirsi a Crono e a Saturno, ma sarà solo fonte di sbagliate interpretazioni. In questo totale delirio si gettano le basi per l’Heavy Metal come testimoniato da una recensione di un concerto da parte del critico Lester Bangs, che per primo userà quel termine.
Blue Oyster Cult, gli album.
Anno 1971, arriva la firma per la Columbia e l’esordio con il primo album prodotto da Sandy Pearlman. Album dal titolo omonimo e contenente il singolo “Cities on flame”. Il loro sound è caratterizzato da Boogie profondi e intensi, giochi di chitarre e tastiere a sottolineare tutto. I testi sono decisamente legati a esoterismo, profondità cosmiche, visioni apocalittiche e toni psichedelici.
“Transmanicaon MC”, “Cities onf flame with rock and roll” e “Workshop of telescopes” sono già dei loro classici che si amplificano ancora di più dal vivo.
“Before a kiss, a Redcap” è un Boogie da bar band, “Screams” è quasi doorsiana, una profonda litania dark da notte profonda con un finale che sembra una filastrocca malevola. Chiude “Redeemed”, una bella ballata chitarristica che ricorda quasi gli Allman Brothers band, nell’intreccio fra chitarre e tastiere. Conquistano un’ottima reputazione live, testimoniato dal Live Bootleg”, composto da quattro pezzi (Workshop on Telescope, Cities on flame, The Red and the black e Buck’s boogie), uscito nel 1972 per la Columbia.
Nel frattempo il loro simbolo citato poc’anzi diventerà un marchio riconosciuto da tutti gli headbangers.
Il secondo lavoro in studio
Il secondo album “Tyranny and mutation” esce nel 1973, con il vinile diviso in due facciate, una con black side e l’altra con red side.
Il lato A è il lato rosso, introdotto da “The red and the black”, un bel blues rock da antologia. Ma su tutti spicca “Hot rails to hell”, che già di suo una bomba, ma dal vivo sarà semplicemente devastante, una cavalcata
di chitarre che portano verso l’apocalisse. Il lato finisce con la lunga “7 Screaming diz-buster”, decisamente psichedelica e oscura. Non mancano i riferimenti al maligno con l’incipit “Lucifer the light”, ripetuto con insistenza e con allusioni sessuali, come testimoniato da un’intervista a Eric Bloom.
Il secondo lato inizia con “Baby ice dog”, dove nei credits del testo figura anche Patti Smith. Ricordiamoci che all’epoca aveva una relazione con Allen Lanier. La song è caratterizzata
da un bellisimo intreccio di tastiere e chitarre, ma è la successiva “Wings wetted down” che si raggiunge il capolavoro, una corale e notturna ballata, quasi gotica nel suo cantato. Una pastorale oscura e piena di tenebre. “Mistress of salmon salt” è davvero il gran finale, un pezzo da vertigini che a tratti ricorda le visioni di Howard Philipps Lovecraft.
Ormai i B.O.C. hanno raggiunto una buona popolarità e qualcuno li vorrebbe come risposta americana ai Black Sabbath, ma sebbene in apparenza ci siano molti punti
in comune in realtà sono molte le differenze stilistiche, più monolitici i quattro di Birmingham, più vari i newyorkesi Blue Oyster Cult.
Blue Oyster Cult, il terzo album
Nell’aprile del 1974 esce “Secret Treaties”, probabilmente il loro capolavoro o perlomeno il loro primo grande album. Qui l’hard rock si affina ancora di più, diventa adulto, allarga le sue visioni e mette veramente le basi per l’heavy metal. Già la copetina è una dichiarazione d’intenti, un disegno della band vicino a un Messerschmitt ME62, aereo tedesco usato nella Seconda Guerra Mondiale, una delle passioni della band.
Le canzoni sarebbero da citare tutte, dalla prima “Career of evil”, un assalto all’arma bianca dove figura ancora Patti Smith nella stesura del testo. O la lisergica “Subhuman”,
il crescendo di “Dominance and submission”, con gran sottofondo di tastiere sugli svolazzi di chitarra. “ME62” e il suo gran riff iniziale, che li fa salire ancora di livello, con effetti bellici a metà canzone. Poderosa “Cagey cretins”, forse un pochino datata, e impressionante l’inizio di “Harvester of eyes”, che diventa un blues rimembrante la struttura di “Roadhouse blues” dei Doors. Ci ritorneremo a questa canzone, con un carillon nel finale che ci guida al vertice assoluto del disco.
“Flaming telepaths” è semplicemente vertiginosa, praticamente le basi del prog metal, e gran finale con “Astronomy”, una delle canzoni più belle in assoluto degli anni 70.
Qualcuno l’ha paragonata a “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin, e bisogna dire che ci è andato molto vicino, sia per struttura in crescendo, che per l’epicità del cantato.
Ci sono gli anni 70 in questa canzone, le chitarre e le tastiere sempre in sottofondo: chiudete gli occhi e vedrete il New England americano, magari di notte, trovando forse le montagne della follia di HP Lovecraft. Finale capolavoro per un disco forse datato ma davvero fondamentale per comprendere l’evoluzione dell’hard rock.
Primo doppio live
Il primo doppio live, come da prassi delle band degli anni 70, esce nel 1975. Esso non aggiunge nulla alla loro fama di band davvero travolgente dal vivo. “On you feet on your knees” presenta dodici tracce, partendo con “Subhuman” e finendo con “Born to be wild” degli Steppenwolf, canzone che hanno coverizzato in molte occasioni. Nel mezzo tanti titoli, come “Hot rails to hell”, “ME262” e “Harvester of eyes”. Un classico dei seventies, quando gli album dal vivo erano una prerogativa per ogni band, sopratutto se erano doppi.
Oggi ci fermiamo qui, il vostro cantastorie DJ Justy vi dà appuntamento al prossimo articolo per continuare a scoprire la splendida storia di questa band.
Commenti post (0)